Anche l’ultimo mese del 2011 vede l’industria manifatturiera del colosso asiatico in frenata, con l’indice Pmi a 48,7 a dicembre, in lieve aumento su novembre, ma resta pur sempre sotto quota 50, che rappresenta lo spartiacque tra recessione ed espansione.
Dunque, cala la produzione e anche il pil del quarto trimestre è atteso meno positivo dei primi tre dell’anno, quando la ricchezza è cresciuta rispettivamente del 9,7%, 9,5% e del 9,1%.
E’ probabile che la Cina debba fare i conti con una crescita nel 2012 inferiore ai tassi del 2011, ma gli analisti non sono pessimisti. Non si dovrebbe assolutamente scendere sotto la soglia critica dell’8%, ossia quello che il governo di Pechino ritiene essere il tasso di crescita sotto il quale inizierebbero problemi di tenuta dell’occupazione.
Ovviamente, i problemi della Cina sono quasi essenzialmente legati alla congiuntura economica mondiale sfavorevole, dato che le sue esportazioni sono dirette principalmente verso l’Eurozona e gli USA, entrambi in crisi.
Ma per fortuna la politica monetaria restrittiva sta avendo successo negli ultimi mesi, con una discesa netta dell’inflazione, lontana dai picchi di luglio del 6,5%. Questo consente al governo e alla banca centrale di avere un maggiore margine di manovra, nel caso dovessero rendersi necessari interventi di stimolo dell’economia.
Non si escludono, invece, tensioni tra Cina e Occidente, riguardo al punto cruciale delle diffidenze nei rapporti reciproci: il tasso di cambio. Lo yuan si è rivalutato contro il dollaro mediamente del 4.7% quest’anno e per Pechino questo sarebbe abbastanza. Anzi, nel caso in cui le esportazioni dovessero soffrire nel 2012, i cinesi sarebbero pronti a svalutare il cambio.
Ovviamente, una tale decisione sarebbe salutata con estremo dissenso in Europa e America, che considerano proprio l’eccessiva sotto-valutazione dello yuan alla base degli squilibri mondiali, fonte della crisi in Occidente.