E’ stata letta ieri alle 21:3o la sentenza della corte d’appello di Perugia che scagiona completamente Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall’accusa di aver ucciso, in concorso con Rudi Hermann Guede (riconosciuto a questo punto unico colpevole con sentenza definitiva dopo il rito abbreviato e condannato a 16 anni di reclusione), Meredith Kercher, morta dissanguata a 21 anni dopo aver subito un tentativo di violenza ed una coltellata infertale alla gola in una tragica notte degli orrori tra il 1°e il 2 novembre 2007. Quattro anni di carcere per la ragazza di Seattle, amica e coinquilina della vittima, e per il suo fidanzato, condannati con sentenza di primo grado rispettivamente a 26 e 25 anni: 1400 giorni da “colpevoli di omicidio”, trascorsi in attesa di una verità processuale che, accolti i loro motivi d’appello, alla fine ha ribaltato e cancellato quella sentenza di condanna restituendo a loro la libertà e loro stessi alle famiglie.
Giustizia è stata fatta? Sì, se riusciamo ad ignorare quel ragionevole dubbio che dentro ci è rimasto e con cui, alla fine, entrambi gli imputati sono stati prosciolti: la piazza, fuori dal tribunale, ha manifestato da subito il suo dissenso all’esito del processo. Sì, perché quer pasticciaccio brutto di via Pergola finisce con un verdetto che dà grande soddisfazione agli avvocati della difesa, che vedono accolta la loro richiesta di assoluzione contro un’accusa che aveva invece chiesto l’ergastolo, ma lascia noi, comuni cittadini di questo Stato, particolarmente perplessi di fronte agli immensi margini di errore della giustizia italiana che ha tenuto reclusi in carcere per 4 anni due giovanissimi fidanzatini innocenti.
E se non fosse così e il verdetto fosse piuttosto dovuto alla mancanza di prove inoppugnabili contro i due imputati, fino a ieri ritenuti colpevoli sulla base di prove scientifiche solo parziali e troppo deboli e che nel processo d’appello sono state confutate ad una ad una in uno spaventoso conflitto tra tesi dei consulenti e conclusione dei periti, allora viene da pensare che hanno sì ragione di essere soddisfatti gli avvocati difensori, ma che devono questo successo e questo “trionfo della giustizia” (così si è espresso l’avvocato Carlo Della Vedova) alla sequela di errori commessi piuttosto dalla polizia scientifica in fase di raccolta e campionamento con delle procedure pasticcione che, non avendo rispettato i protocolli internazionali, ne hanno invalidato la scientificità e fatto cadere le accuse che troppo fragilmente reggevano.
E’ il caso del Dna di Raffaele sollecito rinvenuto sul gancetto del reggiseno di Meredith, – repertato solo in seconda battuta 46 giorni dopo il crimine – per il quale non si esclude un fenomeno di contaminazione, e del Dna di Amanda rivenuto misto a quella della vittima, ma comunque non in quantità sufficiente da definirne il profilo genetico, sulla lama del coltello ritenuto inizialmente l’arma del delitto ma che poi non risulta esserlo più con certezza. Insomma, prove non degne di essere ritenuti tali, inattendibili, che hanno fatto da ago della bilancia in questo secondo appuntamento con la corte.
Espletate alcune formalità dopo la lettura della sentenza, Amanda e Raffaele sono tornati liberi. Lei, la ragazza con gli occhi di ghiaccio che ha ammaliato il mondo mettendo completamente in ombra il fidanzato, tanto che il processo è stato definito “amandocentrico”, descritta dalla stampa come una mantide, scoppiata in lacrime alla lettura del verdetto, dovrebbe prendere un volo oggi per l’America, sebbene pare che il suo passaporto sia nel frattempo scaduto; lui, meno interessante, figura più defilata, che in carcere s’è messo sotto a studiare, non tornerà immediatamente a casa, a Giovinazzo, ma si tratterrà momentaneamente in un altro paese. Non è certo che fossero in via Pergola quella notte: probabilmente, come hanno sempre affermato, erano nell’appartamento di lui a guardare insieme un film mentre l’orrore andava in scena in casa di lei.