L’inchiesta sul caso Penati, che in questa calda estate italiana sta tenendo banco sui titoli dei quotidiani, rappresenta una disfatta per la linea giustizialista che il Partito Democratico ha portato avanti dalla sua nascita, in coerenza con il suo passato ex PCI-PDS-DS. A poco servono le rimostranze della minoranza interna, che tiene a precisare che la storia del PD non sarebbe la continuazione di quella del PCI-PDS-DS, includendo essa anche gli ex centristi della Margherita, perché di fatto, soprattutto la gestione Bersani ha assimilato in toto le differenze interne, annientandole. Un singolo episodio di presunta corruzione non fa certamente traballare un partito, né la sua reputazione. Tuttavia, quello che emerge dalle carte sulla Milano-Serravalle, in particolare, è qualcosa che costituisce un fatto “sistemico”, se ancora ci fossero dubbi sull’agire della sinistra a livello amministrativo. Fu lo stesso Di Pietro, alleato del PD, già nel 2005, in un colloquio con l’ex sindaco milanese del centro-destra, Gabriele Albertini, a definire l’operazione di Penati sull’acquisto delle azioni della società di gestione autostradale, in mano al gruppo Gavio, “un’opera di ingegnerizzazione delle tangenti”. In effetti, il caso Penati ha svelato un modo di concepire l’azione amministrativa della sinistra di stampo “proprietario” della macchina pubblica. Ogni atto deve essere finalizzato ad auto-alimentare la sopravvivenza del partito e degli interessi ad esso collaterali. Vanno aiutati e coinvolti negli affari imprenditoriali e finanziari dipendenti dalla mano pubblica uomini e istituzioni private, che siano funzionali al mantenimento in vita di un certo “sistema politico-imprenditoriale-finanziario”.
Sempre nel 2005, la famosa intercettazione di Piero Fassino, in cui l’allora segretario dei DS affermava al telefono “abbiamo una banca”, riferendosi alla scalata di Unipol (vicina ai DS) su BNL (vicina alla Margherita e Prodi), era il sintomo di un’idea “padronale” del sistema economico da parte della sinistra politica italiana. Persino con il capitolo delle privatizzazioni, varate dai governi della sinistra negli anni Novanta, furono ceduti asset pubblici in mano a privati (100 miliardi di euro), senza alcuna liberalizzazione dei settori industriali in cui essi erano attivi, trasformando monopoli pubblici in privati, affidati a imprenditori vicinissimi alla sinistra.
Il “sistema Sesto”, come viene definito dai PM di Monza che indagano sul caso, rimarca il legame stretto e inscindibile tra le amministrazioni locali di centro-sinistra e il complesso delle cooperative rosse e di un certo sistema bancario e imprenditoriale amico. Non che si tratti di una novità. Su tutti, svetta il dato di regioni rosse, come l’Emilia-Romagna o la Toscana, laddove la sinistra ha sempre vinto a mani basse, senza mai cedimento alcuno a livello di amministrazione regionale.
Possibile che nelle regioni a vocazione storica di sinistra non esista mai un ricambio politico e amministrativo? Possibile mai che la vittoria della sinistra sia dovuta sempre alla presunta buona amministrazione di quelle terre? O forse non si tratta di un diffuso intreccio tra pezzi di economia del territorio (si vedano le coop) e il potere della sinistra locale, che imbriglia il voto in logiche di conservazione dello status quo acquisito?
Sta di fatto che la “diversità morale” di berlingueriana memoria, di cui la sinistra ha fatto sfoggio e vanto da almeno un trentennio a questa parte, si è dissolta nella realtà quotidiana dei fatti e apre interrogativi all’interno dello stesso mondo della sinistra.
Soltanto poche settimane fa, il segretario del PD, Pierluigi Bersani, si ostinava a rivendicare l’orgoglio di una “diversità politica” della sinistra italiana, ossia della capacità di rispondere con maggiore rigore in modo esaustivo a presunti singoli casi interni di corruzione e malaffare. Travolto dall’affare Penati, suo ex braccio destro, è lo stesso Bersani ad ammettere che la sinistra (post-) comunista non può vantare una diversità genetica, concordando con le affermazioni del sindaco fiorentino del PD, Matteo Renzi.
Un brutto colpo per la base militante del partito che si è alimentata per decenni di slogan giustizialisti e di credenze di immunità dal malaffare. Ma c’è poco da gioire, perché l’elettorato della sinistra è solito reagire alla disillusione non con l’abbandono dell’ideologia, quanto con l’abbandonarsi al populismo più qualunquista in stile dipietrista. L’ennesimo brutto regalo che la sinistra offre alla storia del nostro Paese.