Approvate le deroghe alle norme nazionali sul lavoro, possibili con accordi aziendali e territoriali, anche quelle sui licenziamenti. Tutto ciò tramite un semplice emendamento alla manovra finanziaria, appena passato in commissione Bilancio del Senato. L’emendamento (della stessa maggioranza) minaccia così la tenuta dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, visto che quel rimane in piedi è rispettoso solo “…della Costituzione nonchè dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali di lavoro” ma per tutto il resto le intese decentrate (comma 1) possono scavalcare anche “le disposizioni di legge…e le relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali”.
Un altra modifica approvata, dello stesso relatore Antonio Azzollini, fa in modo che l’accordo interconfederale del 28 giugno tra le parti sociali venga assorbito nell’articolo 8 della manovra, la conseguenza è che le intese aziendali o territoriali avranno efficacia per tutti i lavoratori della specifica realtà, a condizione che siano state sottoscritte con “…criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali”. Altro tassello è anche il concetto stesso di “rappresentatività sindacale” che cambia, e viene valutato a livello territoriale, un concetto ulteriormente rimarcato nella formula “associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale“.
Dopo quindi avere assestato il più duro colpo dal dopoguerra ad oggi ai diritti dei lavoratori (ultimo della serie dei governi Berlusconi, dopo diverse leggi mirate sempre e solo ad acuire la condizione di precarietà, come quella abrogativa della legge contro le dimissioni in bianco, o il famigerato Ddl 1167-b sull’arbitrato) arriva la consueta “foglia di fico”, in questo caso un codicillo aggiunto tramite ancora un altro emendamento, che specifica meglio particolari forme di “licenziamento discriminatorio” (casistica tra l’altro già inclusa nel testo) quali verranno di fatto considerati il licenziamento delle lavoratrici in concomitanza col matrimonio, nel periodo di gravidanza fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dal congedo parentale per malattia del bambino ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento, che di conseguenza non rientreranno nella disponibilità delle parti che sottoscrivono le intese aziendali o territoriali. Assai limitata sarà nella pratica la portata di un tale “scudo protettivo”, visto che nell’ampio spettro di deroghe sulla quali si potrà intervenire (mansioni, contratti a tempo determinato, orario di lavoro, recesso dal rapporto di lavoro) non sarà difficile, una volta individuato il soggetto da “colpire”, portare a termine il proponimento in tempi e modi tali da eludere le residue tutele.
Se questa norma dagli effetti probabilmente peggiorativi sul quadro occupazionale appare scritta ancora una volta al solo scopo di rabbonire gli scalpitanti “confindustriali”, forti dubbi vengono espressi anche da uno dei più autorevoli studiosi del Diritto del lavoro, il Prof. Pietro Ichino del Pd (nella foto), a sua volta più volte contestato “da sinistra” per le sue ampie aperture sul tema della flessibilità in uscita.
Ichino sostiene che una tematica così delicata non vada lasciata andare alla deriva con una posizione pilatesca che permette ad ognuno di decidere nella propria realtà, accordandosi col sindacato di turno, ma vada affrontata in maniera organica.
Di fatto, nella situazione attuale, si accentueranno differenze e discriminazioni a seconda di dove si sarà impiegati, con il rischio che in particolare sarà nelle “…aziende di piccole dimensioni, dove comunque le rappresentanze sindacali non sono costituite e l’imprenditore ha minori difficoltà a farne nascere di disponibili a qualsiasi accordo. Un primo effetto che occorre mettere in conto sarebbe dunque l’aggravarsi del dualismo attuale tra le imprese medio-grandi sindacalizzate, che presumibilmente resterebbero per lo più assoggettate all’applicazione integrale dello Statuto dei lavoratori e in particolare dell’articolo 18, e tutte le altre, che occupano più di metà dei lavoratori italiani, dove ogni disposizione protettiva potrebbe essere azzerata.
Il giuslavorista prevede dunque un futuro zeppo di ricorsi e controricorsi che, val la pena di aggiungere, andranno quindi ad intasare i Tribunali del Lavoro, già oggi sommersi di vertenze che durano anni, a causa di una legislazione carente e del “vizietto” di certa imprenditoria di eluderla come regola piuttosto che eccezione.
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Durissimo il commento a caldo di Antonio Di Pietro per Idv, che parla di un governo animato da sentimenti negativi nei confronti dei lavoratori: “Questa norma sul lavoro non c’entra nulla con il pareggio di bilancio, quest’intervento non ha ritorni di tipo economico. E’ esplicito l’odio con cui questo governo si rivolge al mondo del lavoro pubblico e privato”.
E dopo le pubbliche “performance” abituali del ministro Brunetta e quelle meno frequenti del ministro Sacconi, perlomeno il dubbio che tutto ciò sia vero, è lecito che nasca.