La Cina è a un bivio e in questi mesi legge con impotenza i dati macroeconomici che giungono sul tavolo del governo. Il gigante asiatico non mostra cedimenti sul fronte della crescita, che si dovrebbe attestare nel 2011 sul 9,5% circa, smentendo voci di un possibile rallentamento. Ma l’esplosione del pil viene sempre più accompagnata da un’inflazione sopra il 6%, che rischia di compromettere la tenuta sociale, specie nelle campagne.
La reazione di Pechino, dal mese di ottobre del 2010, ha consistito in un aumento dei tassi, attuando una politica monetaria più restrittiva, al fine di contenere la crescita dei prezzi. Ma tale manovra è stata insufficiente, dato che è il surplus commerciale a provocare inflazione, attraverso la creazione di nuova moneta. Per di più, l’aumento dei tassi incoraggia gli investimenti in capitali dall’estero, provocando un aumento della moneta in circolazione.
Ma allora è proprio il canale estero su cui bisogna intervenire, riequilibrando il tasso di cambio tra yuan e dollaro (e le altre valute), rivalutando la valuta cinese, in modo da affievolire l’export, stoppando la creazione di nuova base monetaria. Ma tale operazione, se attuata del tutto, secondo i calcoli di Pechino, porterebbe alla perdita di 20 milioni di posti di lavoro, a causa del crollo dell’export.
Tuttavia, il pericolo più grande da fronteggiare per la Cina è l’eventualità di un collasso del settore immobiliare, il quale cresciuto abnormemente, anche grazie a uno spostamento di massa della popolazione dalle campagne alle città, con l’impennata dei tassi rischia ora di non trovare una domanda adeguata, a causa del rincaro dei mutui.
E il crollo immobiliare trascinerebbe la Cina in un gigantesco caso Lehman Brothers, dagli esiti disastrosi. Per questo, bisogna correre il rischio di un contraccolpo sul versante dell’occupazione, poichè l’alternativa sarebbe il rischio di una caduta dell’impero asiatico.