Vale sempre meno la capitalizzazione in borsa delle imprese italiane quotate. A metà agosto, Piazza Affari ha un valore di 370 miliardi di euro, avendo perso solo dall’inizio dell’anno circa il 20% del suo valore e il 48,5% dall’esplosione della bolla immobiliare e del fallimento di Lehman Brothers del 2008.
A conti fatti, le società americane di Apple e Google, da sole, superano la capitalizzazione di tutte le aziende italiane quotate, avendo un valore rispettivamente di 245,5 e 127,7 miliardi di euro.
Poco, troppo poco, anche solo considerando che la stessa Borsa di Parigi, in questi tre anni, abbia perso quanto noi (-47,5%). Oggi, Piazza Affari vale appena poco più di un quinto del pil nazionale, pari al 21% circa.
Ma le ragioni di un tale valore così basso delle aziende quotate del Belpaese non vanno ricercate per lo più nella grande crisi finanziaria, che ha semmai aggravato un dato già di per sè negativo. Le imprese italiane hanno, infatti, dimensioni medie molto piccole, tali per cui sono pochissime quelle che intendono quotarsi o che ne abbiano le caratteristiche e la convenienza. Poche settimane fa, ad esempio, il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, nel suo primo discorso da numero uno della società di controllo, ha invitato il governo ad assumere misure, che snelliscano le procedure per il cosiddetto “listing”, ossia per l’ammissione alle contrattazione in borsa, magari prevedendo una sorta di negoziazione per i titoli minori, con minori oneri per la quotazione.
Resta poi il problema tipico dell’Italia di azioni concentrate nelle mani di pochi grandi azionisti, quasi sempre legati tra loro da patti di sindacato, che rendono poco allettante l’investimento nelle aziende italiane o persino impossibile, essendo i mercati poco contendibili.