Mancano poche ore, forse solo un giorno, alla data finale utile per un accordo, che eviti il default. Se così non fosse, il 3 agosto, gli USA non potrebbero più autorizzare alcuna spesa federale, perchè non sarebbe autorizzata dal Congresso, il quale per legge stabilisce i limiti legali all’indebitamento.
Ma a temere la crisi del default sono, in queste settimane, soprattutto i cinesi. Gli americani, infatti, in maniera crescente sono costretti a indebitarsi con gli investitori stranieri, avendo tassi interni di risparmio pari a zero. Dall’altra parte del mondo, la Cina, al contrario, vanta un attivo della bilancia dei pagamenti invidiabile, grazie al boom dell’export e alla capacità di attirare capitali. La banca centrale di Pechino, quindi, si trova piena di riserve in dollari, in parte investiti proprio in Treasuries, ossia i titoli del Tesoro USA, considerati tra i più sicuri al mondo.
Quanti sono questi titoli nelle mani di Pechino? Esattamente 1160 miliardi di dollari, ossia l’8% di tutta la massa debitoria americana e rappresentano ben quasi il 12% del pil cinese, se fosse valutato con il metodo della PPP (a parità di potere di acquisto). I cinesi temono, in questo momento, due cose: il default e la svalutazione del dollaro.
Il primo è nelle mani della Casa Bianca e del Congresso e nulla Pechino può per incentivare tale accordo. Quanto al rischio che le politiche accomodanti della Fed, rilanciate con un probabile programma di “quantitative easing” (il terzo, Q3), possano indebolire il dollaro, ciò è proprio il fumo negli occhi della Cina, che teme di trovarsi in mano perdite da minusvalenze, se il dollaro perde di valore.
Non è un caso che il colosso asiatico abbia fin’ora resistito con tutte le sue forze a un’ipotesi di rivalutazione dello yuan, perchè ciò significherebbe, d’altro canto, un dollaro più debole.