Silvio ascolti il consiglio, dia la politica economica a Martino

Il ventennio berlusconiano, per quanto non sia stato un ventennio di governo ma di alternanza tra l’esecutivo e l’opposizione, scade nel 2013, se le cose non cambieranno; a quella data il premier Berlusconi avrà governato complessivamente una decina di anni, escludendo i sette mesi e mezzo del 1994. Margaret Thatcher governò in Gran Bretagna dal 1979 al 1990, esattamente per 11 anni e mezzo. Ronald Reagan fu presidente degli USA dal 1981 al 1989, esattamente per otto anni. Per andare a un esempio più recente, anche l’ex premier spagnolo Aznar governò per “soli” otto anni, dal 1996 al 2004. Eppure la Gran Bretagna e gli USA uscirono dai rispettivi governi della nuova destra thatcheriana e reaganiana rivoltati come un calzino, avendo battuto il flagello dell’inflazione e avviato le economie verso un sentiero strutturale di crescita e di piena occupazione, giunto fin quasi ai giorni nostri (il “quasi” è conseguenza di disastri altrui). In misura minore, anche la Spagna del dopo-Aznar è stato un Paese ben più dinamico del pre-Aznar. Insomma, laddove i modelli di ispirazione del nostro premier hanno governato, le economie ne hanno risentito in modo positivo ed evidente, tanto che i successi elettorali della destra, anche dopo l’addio della Thatcher e di Reagan nei loro rispettivi stati, lo dimostrano ampiamente. Ci chiediamo adesso: può il decennio berlusconiano essere paragonato al vento liberale degli anni Ottanta in Gran Bretagna e Stati Uniti? La risposta è no.

E l’esito negativo – ciò che è peggio ammettere – non dipende tanto dalle intenzioni del nostro premier, che ancora oggi rappresenta di certo la personalità politica di spicco con il maggiore tasso di spirito liberale, quanto l’avere affidato la gestione dell’economia a un socialista, che ha non solo fatto da contrappeso alle istanze riformatrici che venivano dalla parte più dinamica del Paese, ma le ha addirittura zittite e umiliate, trasformando i governi Berlusconi in tante legislature fotocopia del centro-sinistra, se non ad eccezione di alcuni provvedimenti.

Eppure il centro-destra in Italia non è stato privo di personalità garanti di una visione economica di altro tipo. Il prof. Antonio Martino, già ministro della difesa tra il 2001 e il 2006, da anni si batte per rilanciare l’azione dell’esecutivo e della maggioranza, proponendo una piattaforma politica del tutto diversa dal disastro in cui Tremonti ha imbarcato il Paese. Sono rimaste ignorate, tanto per citare un esempio, le sue proposte di riforma fiscale, tese all’introduzione anche in Italia del modello vincente della “flat tax”, che avrebbe garantito al nostro Paese maggiori investimenti, maggiori produzione e occupazione e, nel medio-lungo termine, persino un maggiore gettito fiscale.

Restano due soli anni per ribaltare il giudizio storico sul berlusconismo. Dovrà essere lo stesso premier a decidere se vorrà passare alla storia come un liberale mancato, avendo legato le sue sorti a un socialista dirigista, o come un riformatore illuminato. Ma per fare questo, dovrà affidarsi ad esponenti come Martino e non intimorirsi di cacciare le sirene stonate alla Tremonti.

 

 

 

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