Il rallentamento dell’economia cinese è qualcosa di cui si discute da settimane a Pechino, per cui per la prima volta l’1 luglio, alla ricorrenza per i 90 anni dalla nascita del Partito Comunista Cinese, il segretario del partito e presidente Hu Jintao, anzichè sproloquiare sulle gesta “eroiche” della storia comunista e di Mao, ha lanciato un monito, che ha raggelato i presenti in sala: siamo in crisi.
Una crisi certamente politica, con il PCC in perdita costante di consenso tra la popolazione, ma è il raffreddamento della macchina produttiva del colosso asiatico che inizia a creare qualche preoccupazione seria a Pechino. Per la prima volta, le stime ufficiali del governo parlano di un tasso annuo di espansione del pil del 7%, in calo dal 7,5% della stima per il quinquennio precedente. Il pericolo ha un nome e si chiama inflazione. Giunta già al 5,5% a maggio, la corsa dei prezzi accenna solo timidamente ad arrestarsi, pur mantenendosi ben al di sopra del tasso obiettivo del governo al 4% nel 2011.
E tutto ciò, malgrado siano stati rivisti al rialzo i tassi per ben quattro volte e una quinta volta la scorsa settimana e nonostante un aumento del coefficiente di riserva obbligatoria delle banche al tasso record del 21,5%.
Ma c’è una terza e forse devastante incognita, che rischia di fare saltare il banco, se il rallentamento dell’economia proseguisse in modo molto più marcato: il debito pubblico. Le cifre ufficiali parlano di un rapporto debito/pil al 20%; tuttavia, se si includono i debiti degli enti locali, si arriverebbe al 47% del pil. Ma ancora, se si considerasse l’indebitamento delle banche a capitale pubblico, al cifra ammonterebbe al 70% e, infine, se a ciò si aggiungessero le garanzie che il settore pubblico fornisce alle imprese, il rapporto debito/pil schizzerebbe al 150% del pil.
Per questo, in Cina, nonostante una crescita dai tassi invidiabili, si guarda con preoccupazione al raffreddamento della macchina produttiva del Paese.